Schiavi dei nostri campi

Erano costretti a dormire in porcili adibiti a dormitori in condizioni igienico-sanitarie precarie. Venti immigrati, lavoratori stagionali nei campi del Sud Italia, erano vittime di un sistema di capolarato affiliato con la ‘ndrangheta locale.

Erano costretti a dormire in porcili adibiti a dormitori in condizioni igienico-sanitarie precarie.

Venti immigrati, lavoratori stagionali nei campi del Sud Italia, erano vittime di un sistema di capolarato affiliato con la ‘ndrangheta locale.

Quarantanove persone sono state denunciate dalla Guardia di Finanza di Montegiordano, nel cosentino, nell’ambito di un’indagine avviata tra febbraio 2015 e maggio 2016, finalizzata al contrasto del capolarato.

A capo dell’attività illecita di gestione della manodopera illegale e a basso costo, c’era un cittadino extracomunitario di nazionalità pakistana, ritenuto vero e proprio punto di riferimento, nella piana di Sibari, per quegli imprenditori agricoli che utilizzano lavoratori stagionali pagandoli pochissimo e in nero.

Il caporale – che aveva organicamente rapporti con affiliati della ‘ndrina locale-, deteneva i documenti d’identità dei lavoratori che faceva lavorare in condizioni disumane, per otto ore di fila sotto il sole cocente del territorio calabrese.

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caporalato 2

In poco più di un anno, il caporale aveva incassato circa 250mila euro, in parte versati alla ‘ndrangheta che gli garantiva la protezione sul territorio, in parte trasferiti in Pakistan.

Il tutto accade mentre in Senato viene approvato il disegno di legge contro il caporalato che adesso passa alla Camera. Il fenomeno, in agricoltura, interessa circa 400mila lavoratori in Italia sia italiani che stranieri, ed è diffuso in ogni area del Paese, con picchi nel sud Italia.

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Se dovesse diventare legge, lo sfruttamento della manodopera e del lavoro nero verrà punito con una multa e con una pena che prevede fino a 6 anni di carcere. Azioni severe non solo contro il caporale, ma anche per le imprese.

Qualche anno fa, durante le riprese del documentario “Vivere bene non si dice”, girato assieme al collega Emiliano Barbucci, avevo denunciato le condizioni di vita dei lavoratori della Piana di Gioia Tauro.

Nonostante siano passati ben quattro anni, la situazione non è cambiata molto.

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E tanto per fare un esempio, molti immigrati continuano a vivere nella tendopoli di San Ferdinando, continuano a farsi quattro chilometri a piedi all’andata e quattro al ritorno, per aspettare il caporale che li recluti, per la giornata lavorativa di 8 ore.

Proprio nella Piana calabrese, avevo raccolto qualche testimonianza diretta, ecco qualche stralcio datato 2012, ma quanto mai attuale.

Koudus oggi è riuscito a farcela e a migliorare le sue condizioni di vita, ma tanti altri sono ancora lì, che lottano per tempi migliori.

A due anni dalla rivolta di Rosarno, durante la stagione delle arance un immigrato africano guadagna in media 25 euro per 8 ore di lavoro al giorno, in quella delle melanzane, dei fagiolini e dei kiwi, in una settimana si deve vivere con al massimo 75 euro perché il lavoro diminuisce drasticamente. Chi non riesce a spostarsi nelle altre campagne del Sud rimane nella zona della Piana calabrese sperando che ogni giorno sia quello giusto.

Koudus viene dal Burkina Faso e dal 2008 vive in Italia. “Lavoro dalle 6 fino alle 10 e dalle 16 alle 20, adesso faccio i fili dei kiwi”. Sistemare i fili, i pergolati dove poi crescerà la frutta, fa guadagnare 25 euro. In nero. “Prima – dice Koudus – quando non avevo il permesso di soggiorno non mi potevano fare il contratto di lavoro ma, adesso che ho il permesso non è cambiato niente”.

I lavoratori agricoli di Rosarno, Rizziconi e Drosi e altre zone limitrofe provenienti soprattutto dal Mali, hanno in mano solo le cosiddette comunicazioni obbligatorie, quelle che i datori di lavoro pubblici e privati devono trasmettere in caso di assunzione, proroga, trasformazione e cessazione dei rapporti di lavoro. Nella comunicazione che ci mostra Koudus vi è però un’anomalia: il regime contrattuale a tempo determinato prevede 51 giornate lavorative a fronte di un periodo che va dal 30 marzo 2012 al 31 dicembre 2012. “Perché – dice Koudus – nessuno viene a controllare se noi lavoriamo solo 51 giorni o un anno? Tutti si accontentano di vedere questo foglio ma, non verificano quello che poi c’è scritto sopra. Non sono i lavoratori che sono bastardi ma è il governo che fa delle leggi sbagliate”.

koudusKoudus – Foto Dominella Trunfio

Rispetto al 2010 secondo Koudus l’unica cosa che è cambiata, oltre la drastica riduzione dei fenomeni di violenza a danno dei migranti, è la regolarizzazione delle ore di lavoro. “Prima stavamo nei campi anche 15 ore adesso ne facciamo 7 o 8 ma funziona così: se sei d’accordo bene se no non lavori”.

“Quella che gli italiani chiamano rivolta di Rosarno – dice – non era una battaglia per cambiare il tipo di lavoro, per cambiare i nostri abiti, per cambiare la nostra casa. Noi abbiamo chiesto: o di riportarci tutti in Africa o di darci il permesso di soggiorno. Nessuna di queste due cose è stata fatta”. Per questo “quelli che vivono male sono milioni. Per esempio, nei container possono starci solo coloro che hanno il permesso di soggiorno, ma chi ce l’ha può trovarsi una casa da affittare no? Come fa chi non ha il permesso a trovare casa? È abbandonato a se stesso e si ritrova a dover occupare una casa deserta. Ci sono posti in cui vivono anche 100 persone”.

Quando non lavora Koudus sta nella casa colonica che gli è stata assegnata insieme a tre ragazzi. “Qui ognuno paga 50 euro al mese ed abbiamo luce, acqua e bagno. Sono fortunato, certo con questi pochi soldi che guadagno non sto bene ma, vivo di quello che trovo ogni giorno”. Sul rapporto con gli italiani “non c’è la collaborazione tra bianchi e neri ma non capisco perché. Secondo me sono un po’ razzisti. Una volta, ad un bambino di 10 anni che abita qui vicino era caduto il pallone in campagna, quando gliel’ho portato mi ha detto allora tu non sei cattivo, mia madre mi dice che i neri sono cattivi. Quanto peserà l’opinione di quel bambino quando lui crescerà? Penserà sempre che i neri sono cattivi”.

koudus casaFoto Dominella Trunfio

“Per il futuro il mio sogno è quello di tornare nel mio paese. In Burkina ho tante speranze, ho dei progetti per cambiare le cose lì, voglio ricomporre la squadra di calcio che aveva mio padre, portare dall’Italia un pannello solare e usarlo in una scuola per bambini”.

Nella Piana calabrese i migranti, la maggior parte uomini, vivono divisi tra la Pomona, campo container di Testa dell’acqua, la Tendopoli e il ghetto di Rosarno.

Nella Pomona, l’ex stabilimento di smistamento degli agrumi, la situazione è rimasta uguale a due anni fa. Qui in inverno vivono circa 300 migranti accampati con tende in terrazza e nel cortile: un ghetto molto vicino al centro a Rosarno. Si dorme su materassi di fortuna con le spalle rivolte verso una fogna a cielo aperto.

Il campo container di Testa dell’acqua riattivato nel 2011 e gestito dall’associazione “Il mio amico Jonathan” si trova, invece, sulla strada che va verso Rizziconi. Gli alloggi sono circa una ventina ma, accessibili solo a chi ha il permesso di soggiorno. In ogni modulo dotato di luce e acqua vivono 6 ragazzi divisi secondo la nazionalità. “Ci mettono insieme in base alla nostra provenienza – dice Jan Fiao – forse perché abbiamo la stessa cultura, tradizioni e cucina”.

Jan Fiao è arrivato in Italia per cercare lavoro. Prima a Udine lavorava in fabbrica. “Un giorno poi con la crisi mi hanno detto che non c’era più lavoro per me e sono venuto al Sud. Ora sono in campagna un giorno sì un giorno no, insomma quando trovo qualcosa. Vorrei tornare nel mio paese ma non ho i soldi per il biglietto”. “Tornare a casa” è anche la speranza di chi vive nella Tendopoli di San Ferdinando dove per arrivare si devono percorrere, a piedi o in bici, alcuni chilometri di campagna. Ai lati della strada, alle 4 del pomeriggio ci sono già una decina di prostitute e su questa stessa strada, i migranti anche se in maniera circoscritta hanno subito intimidazioni e violenze.

Il ghetto è invece solo un pezzo di vecchio borgo rosarnese occupato per anni e gestito dai kapò neri, col consenso delle cosche e a dispetto dei reali proprietari degli immobili. “La vita – spiega Jan Phiaown – non va molto bene. Alla fine siamo sempre isolati. Non ci sono italiani che vivono così: nelle tende, nei container, che devono fare i chilometri per prendere l’acqua”. (articolo completo pubblicato su Terrearse.it).

Dominella Trunfio

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